Nonostante le paure individuali, nonostante le informazioni e le direttive da seguire non fossero sempre chiare, anche a causa dell’evoluzione del Corona virus, posso affermare con malcelato orgoglio che il corpo docente della mia scuola ha risposto nel suo insieme molto bene all’emergenza. Anche le difficoltà quotidiane e immediate (l’indisponibilità di un ambiente o di una tecnologia adeguata presso la propria abitazione, il continuo aggiustamento alle indicazioni didattiche e organizzative che si sono progressivamente definite durante le prime due settimane di quarantena, e molte altre) sono state minimizzate con buona volontà e un certo brio. D’altra parte noi insegnanti forniamo un servizio che è giusto continuare a fornire.
Mantenere un collegamento tra docenti e alunni è fondamentale anche per la salute mentale di tutti, lo sto facendo come meglio posso e di certo continuerò a farlo. Devo ammettere che lo trovo molto duro, per quanto necessario. Ho due figli di due e quattro anni che richiedono l’attenzione e la cura che ogni bambino della loro età richiede, non sono in grado di giocare da soli se non per pochi, preziosi, benedetti minuti e hanno diritto a essere rassicurati su ciò che sta succedendo, proprio come i miei studenti e come tutti. Pertanto, finisco spesso a lavorare nei momenti che normalmente dovrei dedicare al riposo e, paradossalmente, mi trovo ad avere ancora meno tempo da dedicare a me stessa rispetto a quando lavoravo fuori casa. Sento di diverse iniziative volte a “far passare il tempo libero” imposto dal Coronavirus, ma io non sono riuscita nemmeno a leggere un libro dall’inizio della quarantena. Sperando che questo prolungato stress non si ripercuota troppo sulla qualità della mia didattica, faccio ampio uso di tutte le modalità che permettono un differimento e ho anche proposto al mio istituto delle modalità di didattica a distanza aggiuntive rispetto a quelle inizialmente previste.
La situazione mi porta a pormi anche non poche domande di metodo. Come è già stato detto mirabilmente da molti altri, insegnare è un fatto di carne e sangue, e una lezione in videoconferenza non ha nulla dell’efficacia di una lezione dal vivo. Le ottime risorse on line, costituite da video effettuati da professionisti del linguaggio visivo on line o da esercizi studiati ad hoc sono preziose, ma nulla riesce a sostituire l’interazione in presenza. Soprattutto, una lezione in videoconferenza è, per definizione, una lezione frontale. Sono vent’anni che nei professionali in primis, ma anche altrove, le lezioni frontali si fanno poco e sono considerate poco efficaci e superate. È stimolante cercare nuovi modi per insegnare e credo che in questo periodo di quarantena tutti noi stiamo scoprendo risorse didattiche che sfrutteremo anche in futuro, ma entrare fisicamente in classe mi manca.
Infine, giungo al fulcro della questione. Un evento senza precedenti come la quarantena da Coronavirus è un evento che ha una forte portata anche morale e filosofica. Ci dobbiamo fermare a riflettere. Trovo che il fatto di lavorare più convulsamente e più duramente di prima, in condizioni peggiori sia un’occasione mancata per me. Sto perdendo l’occasione di riflettere profondamente su ciò che sta succedendo, sul significato anche metaforico degli eventi. Anche per questo mi sono ritagliata un momento, a notte fonda per scrivere questo post. Spero che per i miei studenti non sia così, e che trovino il modo di indagarsi e di porsi delle domande, tra una videolezione e una mail di classe. Credo sia importante, anche dal punto di vista educativo, far capire chiaramente che il tentativo di mantenere una normalità non significa indifferenza a quanto sta accadendo e non deve in alcun modo distrarre dal groviglio esistenziale in cui siamo finiti.
Sarà lungo e difficile, ma ce la faremo.