Concludiamo oggi i contributi relativi al Black History Month uscendo un po' dal seminato con Amanda Gorman. Questa poetessa e performer ha solo 23 anni e, pur potendo interpretare la sua breve biografia come una storia di superamento dei propri limiti e di riscatto, non credo che il suo esempio o il suo impegno per la collettività possano essere paragonabili a quelli costituiti da Joséphine Baker, Alice Coachman e le altre grandi donne rievocate nel corso di questo mese. Non ancora, almeno.
Già nel primo post di questa serie, dedicato a Hattie McDaniels, avevo anticipato che la scelta di dedicare uno spazio delimitato a un gruppo, a una causa, a una battaglia, offre spesso il fianco a critiche. Ho cercato di superare le criticità scegliendo personaggi le cui caratteristiche potessero avere una risonanza in grado di superare i limiti della blackness. Le personalità che ho citato per il Black History Month sono tutte di colore, ma le loro storie sono storie di solidarietà, impegno, superamento di limiti fisici, culturali, sociali. Per questo possono essere significative indipendentemente dall'aspetto fisico delle protagoniste. Detto questo, il clima da "riserva indiana" è spesso ambiguo, e credo che Gorman sia l'esempio di come perseguire, anche efficacemente, un interesse individuale non significhi necessariamente perseguirne anche uno pubblico.
Insomma, è molto difficile stabilire il confine tra superare con estro le ingiustizie e discriminazioni subite e trasformarle in un eterno credito nei confronti del mondo. La questione è delicata, e cercherò di illustrarla riferendomi al caso della traduzione. Tutto è nato dal fatto che la scelta di un editore olandese di affidare la traduzione di The Hill We Climb (della cui celebre performance trovate il video qui sotto) a un traduttore bianco è stata contestata sui social. Il traduttore si è poi ritirato. Poco dopo, l'agenzia letteraria della stessa Gorman avrebbe avversato per analoghi motivi la scelta del traduttore fatta da un editore catalano.
Al di là dell'ovvietà costituita dal fatto che l'appartenenza allo stesso gruppo sociale, etnico, culturale dell'autore non è una condizione imprescindibile alla traduzione (ma non mi dilungo su questo aspetto già affrontato da Martina Testa in questo articolo apparso su Micromega), il punto che mi interessa in questo momento è questo: è lecito fare dei torti subiti, anche non a livello individuale, un'arma o uno strumento di potere? Mi spiego meglio: a nessun autore europeo verrebbe in mente di contestare il proprio traduttore in un paese straniero perché di genere diverso, di diverso orientamento sessuale o appartenente a un gruppo etnico diverso. Farlo nel nome dell'oppressione storicamente subita è francamente antipatico e rischia di consolidare visioni del mondo insostenibili.
Un anno fa, il preside del Burbank Unified School District bandì per decreto l'uso della parola negro indipendentemente dal contesto in cui veniva usata. Tale decisione comportò in pratica l'eliminazione di cinque libri dalla lista di letture scolastiche obbligatorie. I cinque libri erano: Il buio oltre la siepe, Huckelberry Finn, Uomini e topi e, per finire, The Cay e Roll of Thunder, due pluripremiati romanzi per giovani adulti dedicati al tema del razzismo. Credo che la sola lista dei titoli banditi renda palese come una scelta animata senz'altro da buone intenzioni, abbia portato a un risultato aberrante. Cosa c'entra questo con il caso Gorman?
Amanda Gorman è nera, giovane, donna e piena di talento. La sua agenzia si è arrogata il diritto di interferire nella scelta della sua traduttrice, che avrebbe dovuto essere altrettanto nera, giovane, donna e piena di talento. Questo tentativo di controllo è comprensibile solo se si dà per scontato che determinati gruppi etnici di genere e di età sono in credito nei confronti dell'occidente, del maschio bianco, del colonizzatore. Ora, per quanto ci siano fatti storici oggettivi e ben noti alla base di questo, sta di fatto che, con l'esclusione di un certo gruppo di traduttori, l'agenzia ha utilizzato gli stessi metodi che apparentemente contesta.
Ci stiamo addentrando sul terreno instabile della sopraffazione culturale, reso ancora più infido dalle evidenti finalità commerciali e pubblicitarie dei rappresentanti di Gorman. Sì, perché questo storico desiderio di riscatto funziona bene quando si basa su una serie di stereotipi: quello che associa un certo fenotipo al razzismo e all'ignoranza, ma anche quello della ragazzina di colore, con problemi di articolazione verbale che diventa una performer di successo. La realtà è ben più complessa: dubito che i traduttori inizialmente proposti dalle case editrici europee avrebbero proposto traduzioni "colonizzanti", fuorvianti del messaggio. D'altra parre, se la storia personale di Amanda Gorman può essere raccontata come una storia di riscatto, può essere raccontata anche come la storia di una privilegiata che a 16 anni era delegata giovanile dell'ONU, ha studiato ad Harvard e oggi ha un contratto con un'agenzia di modelle.
Il merito dovrebbe essere l'unico criterio di preferenza di un traduttore a un altro, e la traduzione e diffusione all'estero non dovrebbero costituire un campo di battaglia per un marketing selvaggio che si nasconde dietro vecchie e nuove ideologie. Soprattutto, un'artista non dovrebbe aver bisogno di utilizzare trucchi da due soldi per piazzare le proprie opere su un mercato straniero (nemmeno per interposta persona), tanto più che questo particolare tentativo di controllo denota una profonda ignoranza della professionalità dei traduttori. Nel momento in cui raggiunge un pubblico, un'opera d'arte è come un sasso scagliato in un lago. Cercare di controllare in qualche modo la sua diffusione rischia di prevenire l'imprevedibile che scaturisce dall'incontro con l'altro. Sulla possibilità di questo incontro, sulle sue possibili attuali declinazioni voglio concludere questo Black History Month.
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